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I motivi del successo di Tex: 1) il mito del west - prima parte. 22 agosto 2013

IL MITO DEL WEST.

"Che cosa spiega questo successo, e quando si sviluppa Tex? Agli inizi è soltanto una imitazione dei modelli statunitensi, ma già con un suo ritmo, con una configurazione particolare che resterà sostanzialmente invariata; il quadro culturale originario del fumetto è quello del successo del 'western' americano che invade l'occidente e soprattutto l'Italia dopo il vuoto del periodo fascista. Il vecchio 'western' soprattutto, quello derivato da Ford, non quello nuovo, con risvolti psicoanalitici, che muove, lo sappiamo, da 'Shane' cioè da Il cavaliere della valle solitaria. Va considerato anche un altro fatto, che la storia western, quella scritta, tanto diffusa negli USA, da noi non ha quasi diffusione neppure adesso e, tanto meno, quando Tex comincia ad essere pubblicato in Italia". (9)

 

LIBRO 'DISTURBO SE FUMETTO?'

"Ben prima della nascita delle emittenti private, quando la scelta in Italia era limitata a due reti Rai, al sabato sera, alle 20.30, la tv svizzera trasmetteva un film; noi ragazzi speravamo sempre che fosse uno dei nostri, ovvero un western, possibilmente con lo scontro epico tra il buono (il nostro amico) e una pletora" eccesso, sovrabbondanza di persone "di cattivi di turno. Non ci rendevamo forse conto, nella estatica contemplazione di cui eravamo preda allora, che stavamo allineando il nostro sguardo con quello di infiniti altri ragazzi e adulti che si sono lasciati affascinare, nei decenni, dal genere più tradizionale del cinema statunitense, che ha saputo rompere i confini e gli argini tra i mezzi di comunicazione, lasciando le sue tracce un pò ovunque nell'immaginario collettivo. Sono due noti cantautori nostrani a ricordare la forza di penetrazione del genere western nelle fantasie degli adolescenti e degli adulti; Giorgio Gaber, con il consueto piglio polemico e graffiante, riferendosi al film 'Qualcuno volò sul nido del cuculo', ricorda: 'Non c'è popolo più creativo degli americani: ogni anno loro ti sfornano un film... bello... bellissimo... ma guai se manca quel minimo di superficialità necessaria. Sotto sotto trovi sempre il western. Anche nei manicomi riescono a metterci gli indiani... e questa è coerenza!' e Francesco Guccini, nella presentazione 'live' al brano 'Piccola città': 'C'era la via Emilia che tagliava in due la città... e oltre c'era veramente il West, un nostro West personale, il West sognato e visto in diecimila films, dove noi andavamo a giocare agli indiani e a cowboys'. Possiamo allora ricercare nelle storie del genere western le tracce di quella straordinaria fortuna che l'ha portato non solo a conferire apparenza di 'frontiera' alla via Emilia, ma ad attraversare tutta la penisola lungo il tracciato un pò da Grand Canyon dell'Autostrada del Sole. D'altro canto, la definizione minimale del genere è semplicissima: 'Chi dice western, intende generalmente con questa parola un episodio particolare della storia degli Stati Uniti, la conquista del West. Il periodo al quale si fa riferimento, il più delle volte, è quello compreso tra il 1860 e 1890: fu allora che i territori finirono di essere conquistati e coltivati, che le guerre indiane, volgendo al termine, divennero più accanite, che, infine, ebbe luogo la Guerra di Secessione' e già in questa definizione sono presenti alcuni tra gli elementi che favorirono il successo del western: l'avventura (simboleggiata da quella 'frontiera' che prima Kennedy, poi anche Reagan evocarono per smuovere lo spirito coraggioso e intraprendente del popolo statunitense); il confronto/scontro con l'Altro (che può essere estraneo come il pellerosse, ma può anche essere molto vicino, come per la Guerra di Secessione); il gusto della scoperta e del rischio; l'epopea; la figura dell'eroe. Tutti elementi che rimangono ben fissi, quasi inamovibili nell'immaginario statunitense come in quello europeo; non è un caso che le squadre di basket e di football portino nomi come Washington Redskins (Pellerosse), San Antonio Spurs (Speroni), Dallas Cowboys ecc. Elementi, ovviamente, che rendono anche ragione del successo di Tex Willer, che proprio nel Dopoguerra appare come eroe (con tratti da antieroe) western sulle scene italiane (tra l'altro Bonelli non si limita a Tex, ma arricchisce negli anni la passione per il West con personaggi come Il Piccolo Ranger, Ken Parker, e con la bella serie 'Storia del West'). Certo tutti questi motivi possono facilmente essere ricondotti a un unico denominatore comune, il più semplice: 'Il western deve il suo successo a tutta una serie di miti continuamente ripetuti e, come in ogni racconto avventuroso, il suo schema di base è costituito dall'eterna lotta tra le forze del Bene, destinate sempre e comunque a trionfare, e le forze del Male, costrette inevitabilmente a soccombere'. Questo principio assolutamente lineare e trasparente giunge alla sua massima espressione con 'Ombre rosse', film per il quale si potrebbe utilizzare il termine 'mitico' se questo non fosse ormai inflazionato fino ai limiti del buon gusto. Comunque questo lungometraggio 'dà l'idea di una ruota così perfetta da poter restare in equilibrio sul proprio asse in qualunque posizione la si metta': è l'epoca della perfezione del western, coincidente con il periodo immediatamente precedente la seconda guerra mondiale; nel western si può dire, come prosegue in modo un pò cinico Gaber nel monologo sopra citato: 'Gli americani hanno le idee chiarissime sui buoni e i cattivi. Non per teoria, per esperienza: i buoni sono loro!' Il paesaggio si complica e diviene più dinamico alla fine della guerra, quando il genere riprende fiato dopo l'oblio cui lo aveva costretto il conflitto: 'gli anni di guerra propriamente detta lo fecero pressapoco sparire dal repertorio hollywoodiano... i film di guerra dovevano eliminarlo almeno provvisoriamente dal mercato'; come dire che altri erano i buoni e i cattivi da portare direttamente sulla scena e il carattere catartico della metafora western non aveva più presa, minato dall'urgenza degli eventi. Il nuovo corso inaugurato nel 1948 da John Ford vede affacciarsi alla ribalta nuovi temi: la Storia, i problemi sociali e morali, l'amore, tanto che Bazin definirà il western post-bellico 'sur-western'. Il genere tenderà sempre più a raffinarsi, senza scomparire mai del tutto: 'Le sue radici continuano a crescere sotto l'humus" ambiente da cui qualcosa nasce e si sviluppa "hollywoodiano', ma troveremo sempre più il tentativo di liberarsi dell'ingenuità originaria, sentita ormai come un peso; si parlerà per il western degli anni Cinquanta di 'sentimento', 'lirismo', di un genere 'intelletuale', mentre alla nuova definizione dei temi si affiancherà una sempre crescente attenzione tecnica al prodotto, fino a giungere ai western 'politically correct'"politicamente corretto "e attenti a rivalutare la Storia e la figura dei perdenti per definizione, dalla saga di 'Un uomo chiamato cavallo' al Dustin Hoffman di 'Piccolo grande uomo', da 'Corvo rosso non avrai il mio scalpo' al più recente e discusso 'Balla coi lupi'. Insomma, se è vero che 'il western vien fuori dalla storia della nazione americana, che esso esalta direttamente o no', è altrettanto vero che tale storia non è piatta o monocorde, e il genere western ne ricalca e registra fedelmente le variazioni epocali. Partiamo (e come potrebbe essere diverso?) dal 'nostro amico', dall'eroe e westerner: 'reincarnazione del prode cavaliere', di solito contrapposto all'altra figura tipica del film statunitense, quella del gangster, è caratterizzato da 'calma, precisione di tiro, senso dell'umorismo, integrità morale riflessa nel fisico, solitudine' teso a salvare la integrità della sua immagine; un pò 'macho' e un pò gentleman, anche se gravitante soprattutto attorno al secondo polo, e sempre contrapposto al 'cittadino', l''uomo dell'est'. Non sempre bello, a volte porta con orgoglio cicatrici o deformazioni che non stonerebbero sul volto di un cattivo, come capita al John Wayne di 'El Grinta'; a volte debole, insicuro, a volte addirittura eroe suo malgrado, come il James Stewart di 'L'uomo che uccise Liberty Valance'. Se negli Usa ha spesso la faccia da buono , come Henry Fonda, Kirk Douglas, Gary Cooper, nei western italiani è più spesso caratterizzato dai tratti del brutto ceffo alla Clint Eastwood. Tutt'uno con l'aspetto fisico dell'eroe è la sua cavalcatura (con staffe, lazo e ammennicoli vari), senza il quale il Nostro si riduce ad un poveraccio che vaga senza troppa speranza di sopravvivere nel deserto assolato, un pò come Tex Willer nella copertina dell'albo 'Requiem per una canaglia' (n. 219). Antagonista essenziale del westerner, il cattivo, categoria all'interno della quale Leutrat e Liandrat-Giugues distinguono due gruppi: 'quelli che pensano e i violenti'. I primi ovviamente sono i più perfidi, preferiscono la corruzione e traffici loschi alla violenza diretta (ma sanno anche uccidere), mentre i secondi sono i rozzi killer di professione o semplicemente i rapinatori di banche e i loro compari. I cattivi sono quasi sempre brutti, riconoscibili al ghigno, da qualche difetto fisico, dallo sguardo di ghiaccio, e anche dall'abbigliamento: non è detto, però, che vestano di nero. In 'Quel treno per Yuma' il cattivo è in chiaro, e spesso anche i cavalli hanno i colori... scambiati rispetto alla tradizionale associazione 'nero=male'. Ma non capita mai che cattivi e buoni cavalchino animali col mantello dello stesso colore! Spesso, come in Tex, il cavallo del buono ha un nome e una... personalità, mentre quello del cattivo è solo veloce (ma non abbastanza per permettergli di fuggire). Abbiamo poi la donna (la bianca, ovviamente, non la squaw), che ha quasi sempre un ruolo secondario, e spesso travia il buono, utilizzando la sua femminilità per allontanarlo dalla via della ricerca della giustizia; l'eroe non ci casca quasi mai, con le dovute eccezioni, come nel 'Cavaliere della valle solitaria' dove alla donna si aggiunge anche la bambina (non vale, però!), e l'eroe decide di cambiar vita (dopo aver fatto giustizia, ovviamente!). Ci sono poi le prostitute (quasi sempre nere) e le Mamme, veri pilastri del focolare, che restano a guardare dalla finestra sbrecciata i loro figli che partono per le due sponde opposte della giustizia: siano essi ladri di bestiame o sceriffi, la colpa non è certo della zuppa di fagioli e cipolle che Mamma sa cucinare così bene! Passiamo ora all'analisi dei gruppi sociali che si muovono sullo sfondo del West: i gruppi di pionieri, spesso in panne e bisognosi di aiuto e protezione da parte dell'eroe; i mormoni, i quaccheri e la gente di Dio, a volte guardata con maschio distacco dal buono di turno, che non è contro Dio, ma da lì ad andare a messa o alla funzione ce ne corre; il 'Lumpenproletariat' del West, costituito da prostitute, attori, ubriaconi, minatori e simili, considerati qui come gruppo e non come individui aventi una loro distinta personalità; l'esercito, che di solito si limita ad arrivare alla fine, sbrogliando una situazione che senz'altro l'eroe avrebbe sbrogliato da solo, se solo avesse avuto un pò più di pellicola; i messicani, quasi sempre nemici; gli abitanti della città, belle donne, damerini impomatati e gli 'alti papaveri di Washington', verso i quali nessun western è tenero; e infine, i negri, schiavi paurosi ma fedeli e sempre 'relegati a ruoli di second'ordine'. Per concludere, i pellerossa, gli indiani: quasi sempre preannunciati da sintomi che solo le persone esperte sanno interpretare (segnali di fumo all'orizzonte, tracce sulla pista), essi appartengono ad un mondo indistinto tra quello vegetale e quello animale, sono veramente delle 'Ombre rosse', al limite dell'umano. Nella stragrande maggioranza dei casi per poter avere un ruolo positivo deve essere alleato dei bianchi; e comunque, anche quando si prendono le sue difese, egli resta sempre un oggetto un pò misterioso e temibile. Quando un indiano 'buono' uccide un bianco 'cattivo' non lo fa mai con un pietoso colpo di Colt alla testa; lo squarta, lo seppellisce nudo in un formicaio, lo fa mangiare dai coyote, inventa tutte le mille torture che fanno di lui, anche se 'buono', comunque un 'selvaggio'. Il western resta sempre il genere degli 'indiani e cowboy', e la preferenza slitta sempre verso il secondo gruppo umano: l'indiano è comunque un animale notturno, seminudo e misterioso; va forse protetto, ma non è facile viverci insieme; e lo sanno i vari tipi di indiani bianchi, le donne bianche che hanno accettato la vita pellerossa ma portano ancora dentro di sé i segni della violenza subìta ('Sentieri selvaggi'), come gli uomini che alla fine scelgono consapevolmente quel tipo di vita ('Piccolo grande uomo', 'Un uomo chiamato cavallo'), ma nel fondo dei quali troviamo ancora e sempre le tracce, per quanto lievi, di un profondo, ineliminabile rifiuto. Lo stesso che porterà la razza indiana a cadere vittima di uno dei tanti genocidi della storia ('Soldato blu', 'L'ultimo apache'). 'I temi storici riconoscibili si raggruppano di per sé in insiemi più vasti: si possono così individuare almeno sei grandi cicli: il popolamento, le guerre indiane, la Guerra di Secessione, il conflitto mexicano-texano, il bestiame e... il ciclo del banditismo e della legge'. Sulle variazioni di questi grandi temi è giocata la fortuna del western; vi si possono leggere in particolare i sottotemi della presenza del nemico (indiano, Nordista/Sudista o mexicano) e del confronto con se stessi e con le proprie forze a confronto con la Natura (il popolamento; il bestiame); inoltre, vi si può scorgere il problema di un Ordine da imporre al grande disordine di un Reale che sembra precedere l'uomo (l'Ordine dei pellerossa sembra non avere alcuna importanza), come se si trattasse di sperimentare, sulle vergini terre delimitate dalla frontiera, la capacità dell'uomo di farsi legislatore del mondo. A questi temi si riagganciano le numerose situazioni classiche del genere. A partire dalla violenza, che non manca mai del tutto e a volte raggiunge livelli molto elevati, fino a toccare il massimo del pathos" sofferenza, tensione drammatica "nella Guerra di Secessione (bianchi 'versus'" contro "bianchi, una violenza difficile da legittimare, mentre ammazzare un indiano o un messicano è più semplice da giustificare); in alcuni casi siamo di fronte ad un compiacimento della violenza medesima, prossimo a certe realizzazioni della cinematografia 'noir'. Legati al ciclo della legge abbiamo i vari episodi criminosi con i relativi eroi negativi; l'assalto al treno e alla diligenza, la rapina alla banca ecc... e le risposte della legge: cattura, imprigionamento, processo, impiccagione o linciaggio o evasione. 'Pat Garrett and Billy the Kid' ci sembra l'esempio più interessante di rapporto speculare tra la figura del garante del 'law and order'" legge ed ordine "(legittima, ma in qualche modo noiosa) e quella del ribelle ('cattiva', ma affascinante). Ovviamente un ruolo fondamentale hanno le armi con tutto il feticismo" cieca e fanatica ammirazione "ad esse legato: dalla classica Colt, ai fucili ('Winchester '73'), alle Derringer che le donne nascondono nelle giarrettiere e i vigliacchi negli stivali, alle rarissime mitragliatrici, e infine a tutti i tipi di armi bianche (care soprattutto agli indiani). Modi di morire più sofisticati sono l'essere trascinati da un cavallo in corsa, legati alla sua coda, o l'essere affogati in un abbeveratoio, con tutte le variazioni sul tema legate al sadismo degli autori. E' ben raro che si muoia di morte naturale (accade quasi solo per le Mamme), e anche le morti da pallottola sono abbastanza lunghe e dolorose. Il vestiario ha una notevole importanza: jeans, camicione, gilet, fazzoletto per proteggersi dalle intemperie (rarissimi i cravattini, quasi sempre neri) e cappello a falde larghe per gli uomini; gonne larghe e di lana grossa per le donne. Più, ovviamente, gli accessori: cintura e fodero per la pistola (i vigliacchi portano il fodero 'aperto' per poter sparare 'in alzata': è per questo che Tex viene ferito ne 'La sconfitta', n. 99), stivali, speroni (i raffinati, quasi sempre cattivi, se li costruiscono con una moneta d'argento da uno o cinque dollari). I luoghi, infine; dalle praterie aperte, spesso illuminate da infuocati tramonti, agli accampamenti indiani, al deserto che sembra cedere terreno all'avanzata della ferrovia (e al treno, con tutto il suo portato di civilizzazione e modernità ma anche di fine di un mondo) alle città, con il loro fascino di perdizione: il saloon, dove si giocano partite a poker sempre piene di assi nella manica e sparatorie in agguato; il casinò, dove le partite sono lo stesso truccate ma non ci si spara perché le pistole vanno lasciate all'ingresso ('noblesse oblige'); la banca, l'ufficio dello sceriffo, le stalle, il magazzino (o 'store'), e infine il bordello, unico luogo per l'erotismo in un genere che 'resta piuttosto pudico' e che d'altro canto sembra scaricare sui rapporti maschili di amicizia, virili e sinceri, tutto un potente carico di omosessualità rimossa o repressa. Sono davvero infinite le ricadute che il genere western ha avuto in diversi e svariati campi del sapere e del costume: ci limiteremo ad analizzarne alcune, cercando di isolare temi e motivi che ci sembrano comunque di qualche interesse per il lettore degli albi di Tex Willer e comunque per chi volesse saperne di più sul genere in esame. Partiamo dalla musica; non abbiamo lo spazio per parlare del genere 'country', anche troppo facilmente collegabile al West, non solo con John Denver, ma anche con gli 'Alabama' (la loro 'Mountain Music', per la verità, a noi italiani ricorda il montaggio dei goal del trionfale Mundial 1982, ma ci riporta anche la voce del 'vecchietto del West' nell'attacco della canzone) e la generazione dei 'Sons of the Pioneers'; al di là di questo genere, è altrettanto facile riandare al già citato 'Pat Garrett and Billy the Kid', musicato (e interpretato!) da Bob Dylan: e oltre all'apprezzamento scontato per 'Knockin' on Heaven's Door' ci sembra di dover ritrovare nella splendida 'Final Theme' e in 'Billy1', 'Billy 4', 'Billy 8' le atmosfere del western più malinconico e pensoso. Ci pare che qui il fatto storico del confronto tra i due ex-amici sia trattato non del tutto diversamente da come lo analizza/utilizza Jorge Luis Borges in 'Storia universale dell'infamia': caduto ogni sentimentalismo, resta la nudità di una vicenda, che parla di potere e di amicizia come nessuna predica moralistica saprebbe fare. Un rifermento d'obbligo, poi, per Fabrizio de Andrè: in 'Fiume Sand Creek' egli rievoca, con lo sguardo di un bimbo pellerossa ucciso, una strage in un accampamento indiano ('Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura/... tirai una freccia in cielo per farlo respirare/tirai una freccia al vento per farlo sanguinare/ la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek); in 'Se ti tagiassero a pezzetti' scioglie un canto d'amore indiano: 'Se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe/il regno dei ragni cucirebbe la pelle/e la luna, la luna tesserebbe i capelli e il viso/e il polline di Dio, di Dio il sorriso'; e in 'Verdi pascoli' evoca la declinazione specificamente pellerossa dell'Aldilà: 'Gli aranci sono grossi, i limoni sono rossi, lassù, lassù nei verdi pascoli/e ora non piangere perché/presto la notte finirà/con le sue perle e stelle e strisce in fondo al cielo'. Lo schierarsi dalla parte dei perdenti è qui abbastanza chiaro, e forse non abbisogna di commento. Altro riferimento musicale italiano, l'Angelo Branduardi di 'Indiani', che ci mostra un'antropologia pellerossa fatta di carne, sangue e respiro: ('E' caldo il sangue della mia donna/che accanto a me respira/e maestose maree/muove la luna/ viene da Oriente il sole/ avanza al battere del cuore/e maestose maree/ muove la luna'); per gli stranieri, potremmo limitarci a citare i Dire  Straits di 'Once upon a time in the West', ma ci sembra di poter dire che anche il Tom Waits di 'Closin' Time' abbia in qualche modo racchiusa nelle note l'atmosfera del saloon! E per non essere troppo seri, un ricordo per 'Gli indiani' di Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto. Tornando al cinema, stavolta in forma satirica, ricordiamo le pellicole in chiave western con Bud Spencer e Terence Hill, ma soprattutto un bel film di animazione di Bruno Bozzetto: 'West and Soda', del 1965: 'La trama è centrata su Johnny e Clementina, i 'buoni' e sulle angherie cui li sottopongono il Cattivissimo e i suoi due scherani" sgherri, banditi "Ursus e lo Smilzo. Nel finale Johnny, eroe complessato, ritrova l'antico spirito e lava ogni onta. Anche se stavolta irrisolta nella narrazione, questa scapestrata parodia del western si fa apprezzare per la fantasia inesauribile e paradossale'. Ancora in chiave parodistica, l'apparizione di Giuliano Gemma/Tex Willer nella pianura lecchese percorsa a cavallo da Don Rodrigo, valido esempio di decontestualizzazione per scopi umoristici offerto dai 'Promessi Sposi' del trio Lopez-Marchesini-Solenghi, e, in campo fumettistico, i due personaggi di Lucky Luke e di Cocco Bill, vaganti in due versioni fantastiche e scanzonate del Far West. Parlando di contaminazione non poteva mancare un riferimento interno alla storia del cinema: si tratta del 'Mondo dei robot', un bel film di fantascienza nel quale un parco dei divertimenti del futuro, totalmente attrezzato con robot perfettamente simili agli esseri umani, prevede un settore western, con un Yul Brinner cattivo... anche come robot. L'effetto di straniamento di questo film, soprattutto nei passaggi tra la supertecnologica sala di controllo e i saloon della cittadella ottocentesca è davvero notevole. Infine un accenno alla ricaduta del western sulle pubblicità, soprattutto su quelle 'cult' di qualche decennio fa. Ricordiamo allora che la fantasia dei 'creativi' aveva trasformato un piccolo centro del varesotto in una città del West, con il jingle: 'A Cavaria city c'è/tutto quanto il vecchio west/puoi trovarci, credi ame/tutto quanto fa per te'; e, a vendere gli elettrodomestici, erano il vecchio Bill e il cane Bull (quello dalla straordinaria risata catartica!); indimenticabile, poi, il 'mezzogiorno di cuoco' che contrapponeva Blek Jeck (non si scrive così, ma per noi così era!) a Rringo (rigorosamente con due 'erre') per il possesso della carne in gelatina Montana; e infine, un'ultima citazione per il cowboy solitario che attraversava la città semi-addormentata dopo il tramonto, per cercare una vittima, un ladro o un assassino; e che, giunto alla porta di una casa, chiedeva con una voce da Lee van Cliff: 'E' qui che c'è un bambino cattivo?' 'No, qui c'è solo un bambino indisposto' rispondeva una dolce voce materna. Il bambino sarebbe stato subito meglio, perché aveva preso la dolce Euchessina. Ma a noi restava il turbamento di quel cavaliere senza paura in giro di notte per Milano o per Roma; forse era la traccia metà concreta e metà fantastica di un genere che non tramonta, al di là della fine della guerra fredda e della persistenza di vecchi e nuovi nemici; e che, con la terza ristampa degli albi di Tex, è pronto ancora una volta ad attraversare in lungo e il largo la Penisola, cavalcando di notte 'tra l'Autosole e il West'. (7)

 

LIBRO 'TEX - UN EROE PER AMICO'.

"Cercare di riannodare tutti i fili che portano a Tex Willer, dalle profondità del Mito del West in Italia, è un'impresa assai difficile. Perché il ranger creato da Gianluigi Bonelli e Aurelio Galleppini nel 1948 non è (ovviamente) un personaggio western qualsiasi, né è solo il più importante eroe di carta italiano di tutti i tempi, quanto meno per durata e diffusione. E' la 'summa' di molte e diverse figure leggendarie del selvaggio Ovest, quali sono giunte in Italia nell'arco di oltre un secolo, passando per la fotografia, la letteratura di genere, il cinema e (naturalmente) la narrativa disegnata. Ma Tex è anche l'erede di tutti gli eroi 'popolari' dei fumetti che sono venuti prima di lui, a partire da Dick Fulmine e Furio Almirante, e ha anche degli addentellati non trascurabili con il fumetto 'colto'. Tex è perciò, in qualche modo, un riassunto del Mito del West come è stato vissuto in Europa, e principalmente in Italia, prima e dopo stagioni chiave come quella , cinematografica, dei cosiddetti 'spaghetti western'. Inoltre, in mezzo secolo di fortune editoriali, nonostante che lo scenario delle sue avventure sia sempre stato l'Ovest selvaggio, Tex ha seguito e in parte rispecchiato le profonde trasformazioni del costume nella società italiana, l'evolversi delle vicende storiche e il sorgere e il tramontare di tutte le ideologie, a partire proprio dal cruciale scontro politico del 1948, l'anno in cui vide la luce, fino e oltre la caduta di tutti i muri. E' un mito che riassume in sé altri miti, e in questo, secondo noi, sta gran parte della sua inossidabile fortuna. Le origini di Tex Willer non si esauriscono nel magmatico mondo editoriale dei tardi anni Trenta e del decennio successivo. A cinquant'anni di storia del personaggio ne corrispondono almeno altrettanti, che possiamo contare a ritroso fino agli inizi del secolo. Un filo sottile ma tenace, infatti, collega il ranger e i suoi 'pards' a isole dell'immaginario collettivo che a tutta prima sembrerebbero aver poco in comune con lui e anche fra di loro: il Buffalo Bill in carne e ossa e quello delle vecchie dispense, il 'Tango delle capinere', le copertine della 'Domenica del Corriere', i 'giornali' a fumetti degli anni Trenta, Broncho Bill, Kit Carson di Rino Albertarelli, e tanti altri che evocheremo via via. Ci sono decenni di ingarbugliate radici, metamorfosi e derivazioni che portano, dalla letteratura popolare del secolo scorso, al Tex di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galleppini. Ricostruire questo percorso è già di per sé un'avventura affascinante: ma è evidente che un viaggio ideale nella letteratura popolare, nello spettacolo e nel costume che abbraccia oltre cento anni, non potrà che essere parziale. La nostra ricerca seguirà perciò solo alcuni fra i molti possibili percorsi, andando a scavare in una miniera di memorie che affonda in un epoca precedente alla nascita dei mass media come li intendiamo adesso, e che quindi ha colori, profumi e fremiti che per noi sono tornati adesso esotici e ammaliatori. Ma l'analisi di alcuni punti fermi, autentici 'nodi' del Mito del West, ci permetterà di cogliere in ogni caso le tappe cruciali del passaggio epocale dall''eroe primigenio'" generato per primo, che appartiene alle età più remote "a Tex, e nello stesso tempo di seguire le trasformazioni della società di cui è stato espressione. 1908. Un giovane avventuriero cavalca le praterie del West, alla ricerca di banditi e con la certezza di incarnare il Bene che raddrizza i torti e ripara le ingiustizie. Lo accompagnano due 'pards': un indiano intelligente e fedele e un vecchio pistolero pieno d'esperienza e ancora in gamba. Non è la realtà, ma una fortunatissima finzione: sono gli eroi di una serie di racconti che si vendono come il pane nelle edicole di tutta Italia. Qualcosa di familiare? Certo, perché siamo proprio alle radici del Mito. I nomi dei tre eroi sono quelli di Buffalo Bill, di Piccolo Cayuse e del vecchio cacciatore Nick Wharton. Le loro avventure, naturalmente in testo, appaiono dal 1908 in una serie di fascicoli settimanali di 32 pagine, con racconti autoconclusivi, dotati di suggestive copertine a colori fortemente evocative. Le dispense escono con il marchio della Casa Editrice Americana, ma in realtà dietro quella esotica sigla si nasconde la filiale italiana di Alwin Eichler, un editore di Dresda che da pochi anni ha dato vita alla prima multinazionale della carta stampata. L'uscita della serie è stata preceduta, di poche settimane, dalle avventure di 'Nick Carter, il gran poliziotto americano', un altro personaggio seminale. L'italia in cui hanno un enorme successo le dispense della Casa Editrice Americana è ovviamente assai diversa da quella che vediamo oggi intorno a noi, ma anche da quella che i nostri padri e i nostri nonni sono in grado di raccontarci. E' un'Italia in gran parte rurale, con gravi sperequazioni sociali, in cui sono già sorti movimenti rivoluzionari e riformisti in lotta contro la società borghese e anche fra di loro; un'Italia fatta di città in grande trasformazione economica, e di campagne immutate e immutabili che seguono solo il ritmo delle stagioni; un'Italia soprattutto in mano ai notabili statali, agli aristocratici e a pochi, intelligenti, agguerritissimi industriali che iniziano a distribuire ricchezza presso classi sterminate immerse ancora in un'arretratezza estrema, che oggi farebbe inorridire. Ma è anche un'Italia arretrata sotto l'aspetto della letteratura popolare. Oltre ai romanzi d'avventura di Emilio Salgari, e alle poche traduzioni di autori esteri (da Jules Verne a Thomas Mayne Reid e, come vedremo meglio, a James Fenimore Cooper), c'è ben poco. A spiegare la necessità di letture d'evasione non basta affatto, come vorrebbe Antonio Gramsci, il tentativo inespresso del proletariato di cercare una rivalsa sociale, proiettando i propri sogni di riscatto su personaggi fantastici. C'è anche l'aspirazione a godere in qualche modo di un'estetica letteraria e figurativa, laddove l'arte colta è ormai completamente distaccata dalle possibilità di comprensione del pubblico più vasto. Il giro di boa del Novecento vede infatti la nascita di esperienze letterarie e nel campo dell'arte figurativa, i cui linguaggi non sono più generalmente accessibili, per la mancanza di diversi livelli di lettura. La persona con sensibilità culturale ma bassa scolarizzazione, che fino a dieci anni prima poteva fruire dei 'Promessi Sposi' di Alessandro Manzoni o dell''Orlando Furioso' di Ludovico Ariosto, e ammirava la pittura figurativa della metà dell'Ottocento, non può più accostarsi alle numerose avanguardie che proliferano dal 1905 in poi. Per soddisfare la domanda di letteratura popolare, in Italia, ci sono solo pochi periodici di 'viaggi'. Il più importante e longevo è il 'Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare' edito fin dal 1878, da Sonzogno: oltre ai testi, più o meno verosimili, hanno grande impatto le accurate illustrazioni, suggestive incisioni non più oleografiche ma quasi realistiche, con un gusto dell'orrido che prefigura ampiamente la futura civiltà dell'immagine. Sul 'Giornale dei Viaggi' appaiono anche gli indiani, ovviamente ancora fermi al livello di selvaggi assolutamente inconsapevoli. Ma dopo l'esordio di 'Nick Carter' e di 'Buffalo Bill', in quel fatidico 1908 (che a dicembre vedrà anche la nascita del 'Corriere dei Piccoli', il primo giornale a fumetti italiano), le dispense settimanali colmano un enorme vuoto. I due eroi seriali di carta spazzano via tutta la letteratura popolare che si era vista prima: le loro copertine dai colori violenti, gialli e rossi vividi, impongono subito all'immaginazione dei lettori un modello nuovo. Ma la storia che vogliamo raccontare è lunga, e questo è quasi il punto d'arrivo. Bisogna prima capire com'è arrivato in Italia il Mito del West, quali strade ha percorso nelle sue fasi iniziali. Quello che comunemente definiamo West, con le accezioni ormai desuete di 'Far West' e 'Wild West' e le corrispondenti traduzioni italiane 'lontano Ovest' e 'Ovest selvaggio', in uso fino agli anni Trenta, è un periodo storico e un luogo geografico che è difficile definire in modo univoco. Perché, se tecnicamente l'epopea della Frontiera, dal punto di vista anglosassone, inizia nel 1620 a Plymouth con i Padri Pellegrini sbarcati con la 'Mayflower', e termina nel 1890 con la resa di Toro Seduto e con il censimento ufficiale che dichiara il territorio degli Stati Uniti completamente colonizzato, è anche vero che sono esistite una 'frontiera' spagnola, una francese e una olandese, con le rispettive epopee, anche se la Storia ha finito per consegnarle all'oblio. Una gran parte della storia americana, fin quasi dalla scoperta di Colombo ai primi anni del nostro secolo, rientra agevolmente, almeno nell'immaginario collettivo universale, sotto la generica etichetta di West. Sono western i racconti ambientati nei freddi e innevati territori del Canada, percorsi dalle Giubbe Rosse a cavallo, come quelli che hanno per scenario i calcinati deserti del New Mexico e anche più a Sud, fuori dal territorio degli Stati Uniti. Sono panorami completamente diversi tra loro, come eterogeneo fino all'incredibile è il paesaggio americano, ma tutti rientrano nell'idea di West che si è formata nell'immaginario collettivo: i grandi laghi, le enormi foreste, le pianure erbose e sconfinate, le montagne rocciose, perfino le nevi dell'Alaska. In qualche modo sono western anche le storie sui primi coloni, le grandi missioni scientifiche, come quelle di Lewis e Clark del 1804 e del 1806, di cui ci restano i suggestivi diari, oltre alle vicende di banditi urbani e non, di giustizieri spietati e di giudici a ovest del Pecos. E' senza dubbio un mito western la ferrovia, alla quale giusto Buffalo Bill immolò lo sterminio dei bisonti; e poi c'è anche un West 'recente', che prende le mosse dalla tragedia di Little Big Horn, supera la barriera del secolo e arriva allo squallore delle riserve indiane fin dentro gli anni Trenta di questo secolo. Senza contare che, sempre ovviamente tenendo d'occhio la letteratura popolare, il genere western, ormai una dimensione dello spirito, più che un luogo e un periodo storico, non disdegna le civiltà precolombiane, Tenochtitlàn, Cuzco, le piramidi maya, i templi aztechi, e giù giù fino agli Incas. Gli intellettuali degli Stati Uniti hanno avvertito fin dall'inizio la necessità di inventarsi una propria mitologia, e gli Europei sono stati sempre ben disposti ad abbeverarsi alla fonte cristallina della Frontiera. D'altra parte, già Cristoforo Colombo, con i suoi diari di viaggio, suscita la curiosità dei lettori europei più aperti alla novità, e dà il via alla formazione di un Mondo Nuovo per metà illusorio e per metà reale, che attraversa quasi indenne, nelle sue linee essenziali, il XVI secolo e i primi anni del successivo. Il processo di trasformazione della cronaca e della storia recente in leggenda si avvia però subito dopo la Guerra d'Indipendenza, e si sviluppa su due piani distinti ma ricchi di feconde interconnessioni, quello delle arti visive e quello letterario. James Fenimore Cooper, Robert Montgomery Bird, William Gilmore Simms sono i primi cantori dell'America selvaggia e ricca di opportunità, che è subito un mito per gli Europei, ancor prima che qualcuno pensi a consolidare le leggende, a santificare gli eroi, a costruire le prime fondamentali mistificazioni. Ma fra questi è soprattutto James Fenimore Cooper a stabilire i canoni fondamentali dell''epos' del lontano Ovest, dando un corpo credibile alle prime figure stereotipiche del West classico, e nello stesso tempo facendo della letteratura decisamente colta. Il libro più conosciuto e importante di Cooper è certamente 'L'ultimo dei Mohicani' ('The Last of the Mohicans', 1826). Il romanzo fa parte del cosiddetto 'Ciclo di Calza di Cuoio', che narra le avventure del primo eroe della letteratura statunitense, Natty Bummpo, protagonista (oltre che di 'L'ultimo dei Mohicani') di 'I pionieri' ('The Pioneers', 1823), 'La prateria' ('The Prairie', 1827), 'La guida' ('The Pathfinder', 1840) e 'Il cacciatore di daini' ('The Deer Slayer', 1841). Natty Bummpo ha delle caratteristiche somatiche e psicologiche peculiari, destinate a perpetuarsi nel tempo, e a essere trasmesse in eredità agli scrittori più 'bassi', per approdare poi alle 'dime novels'. Detto anche 'Occhio di Falco', Natty Bummpo, il bianco semiselvaggio che vive in simbiosi con l'aspra natura del Nuovo Mondo, si configura quasi come un 'anti-indiano', condivide con i nativi molte caratteristiche esteriori e modi di vita, e si presta anche a connotazioni umoristiche e farsesche. Il passaggio dai romanzi colti di James Fenimore Cooper alla letteratura di genere è contemporaneo alla nascita dei mass media, e quindi si avvantaggia dell'enorme forza propulsiva di mezzi di comunicazione nella loro fase germinativa. Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, nascono negli Stati Uniti le 'dime novels', letteralmente 'romanzi da dieci cents'. I primi editori sono i fratelli Beadle di Buffalo, che all'inizio divulgano economicissime raccolte di canzoni e poi di racconti umoristici. Trasferitisi a New York, i Beadle invadono il mercato nel 1860 con il romanzo western 'Malaeska, la moglie indiana di un cacciatore bianco', di Ann Stephens, ambientato nei primi tempi delle Colonie. A questo titolo ne seguono molti altri, con un successo crescente, tutti ambientati nel lontano Ovest o in territori altrettanto remoti come la Costa Barbara o il gelido Nord. Ai Beadle si affiancano via via fino a Street and Smith, che lanciano 'Nick Carter' e 'Buffalo Bill'. Da Cooper in giù, le caratteristiche dell'eroe-tipo del West immaginario assumono ben presto delle forme codificate, che vale la pena di analizzare attentamente. Il personaggio al centro di queste vicende, il Natty Bummpo nelle sue successive incarnazioni, colte e popolari, è rozzo, duro, un autentico 'trait d'union'" intermediario, legame "fra il 'buon selvaggio' rappresentato dall'indiano e l'esploratore di stampo classico. Vive 'en plein air'" all'aria aperta, all'aria libera "in uno scenario grandioso per bellezza e vastità, con un animo puro e scevro da qualsiasi interesse o miseria umana: il West, che sia quello delle foreste o delle grandi pianure, è la Terra Promessa della felicità e dell'abbondanza, è insieme l'Eldorado, il Brasile mitico, il Cipangu sognato invano da Colombo. L'assoluta povertà materiale dell'eroe primigenio è compensata dalla lucentezza del suo coltello, dai suoi abiti di duro cuoio sfrangiato, dalle pelli di castoro con cui si ripara dal freddo. L'asprezza della vita dell'eroe è la sua stessa ragione di esistenza, perché vive in perfetta simbiosi con le forze della natura. Una condizione di assoluta libertà che viene descritta con efficace lirismo perfino dall'editore milanese Gustave Aimard, per il quale l'autore 'percorse l'America dalle sommità più elevate delle Cordigliere sino alle rive dell'Oceano vivendo di giorno in giorno, felice del presente, senza pensare all'indomani, figlio perduto della civiltà'. E anche Van Wick Brooks, parlando di Washington Irving, sfiora la poesia quando con malcelato rimpianto esclama: 'Com'era bello essere giovani, avere un fucile, coperta e cavallo, essere pronti a girare il mondo con un minuto di preavviso'. Ma nonostante questo, in una sorta di contraddizione originaria che segnerà poi di sé tutta la conseguente mitologia dell'Ovest, l'eroe è anche il portatore della civiltà occidentale, il paladino del progresso, l'antitesi dell'indiano conservatore e inconsapevole, l'uomo dalla fede incrollabile, per cui (al limite) lo sterminio dei nativi può già avere un suo senso, una giustificazione addirittura morale. Si tratta di una figura a metà fra il leggendario e il reale, ormai strettamente associata al mondo anglosassone delle tredici colonie primigenie. Ma la sua origine è molto più lontana nel tempo, e ha un'impronta etnica assai diversa. Scrive infatti Jacques Chastenet, nel suo suggestivo libro 'La conquista del West': 'Dobbiamo risalire al 1635 anno in cui Champlain morì dopo aver fondato lungo i fiumi San Lorenzo e Ottawa la Nuova Francia. Gli inizi sono difficili: la compagnia dei 'Cento Soci', che ne ha la concessione, cerca soprattutto di procurarsi pellicce; per questo è sufficiente un piccolo numero di audaci 'coureurs de bois', spesso 'legna bruciata' (meticci) che, vogando con pagaie su leggere canoe di corteccia d'albero, risalgono il corso delle acque attraverso la foresta vergine, fermandosi per tendere trappole o per vendere agli indiani moschetti, coperte, utensili da cucina e alcool, in cambio di preziose pelli di castoro, di opossum, di orso lavatore e di volpe argentata. Essi raggiungono poi Montreal, rivendono il bottino agli agenti della Compagnia, e molto spesso sperperano rapidamente al gioco o con donnine allegre gli scudi che hanno guadagnato, e poi ripartono. (continua) (8)

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(7) Settembre 1998. Raffaele Mantegazza e Brunetto Salvarani, 'Fra l'Autosole e il West', su Disturbo se fumetto?, Edizioni Unicopli, Milano, p. 152-165.

che citano il doppio album 'Libertà obbligatoria', Ricordi, 1975;

il doppio album 'Fra la via Emilia e il West', Emi;

J.L. Leutrat, S. Liandrat-Giugues, 'Le carte del Western. Percorsi di un genere cinematografico', Recco, Le Mani, 1993, p. 12, 15, 19, 23, 36 - 37;

G. Strazzulla, 'I fumetti. La storia, gli autori', vol II, Firenze, Sansoni, 1980, p. 55-56;

A. Bazin, 'Che cosa è il cinema?', Milano, Garzanti, 1955, p. 261 - 263, 287;

J.L. Borges, 'Storia universale dell'infamia', in 'Tutte le opere', vol I, Milano, Mondadori, 1984, p. 76 - 480.

l'album 'Fabrizio de Andrè, Cgd

l'albun 'Si può fare', Emi, 1992

G. Bendazzi, 'Cartoons. Il cinema d'animazione 1888 - 1988', Venezia, Marsilio, 1988, p. 345.

(8) 1998. Gianni Bono e Leonardo Gori 'Prima di Tex', p. 10 - 19, su "Tex - Un eroe per amico", di Gianni Bono e Leonardo Gori, Federico Motta Editore S.p.A., Milano.

(9) A. C. Quintavalle, 'Perché Tex ha tanto successo? Studiamo i suoi personaggi', su Paese Sera, Roma, 5 novembre 1978, Editore G.A.T.E. attraverso la Paese Sera S.r.l.




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